Avvicinarmi allo yoga è stato, anzitutto, un atto di disciplina quasi violento; bisognava andare contro ogni mio spontaneo impulso: non muoversi velocemente, non interessarsi a quello che succede intorno, non entrare in comunicazione con le altre persone accanto a me, respirare, respirare, respirare, con consapevolezza e lentamente e – importante, impossibile – chiudere gli occhi.

Ma come! Perdere la connessione con il mondo prossimo, non poter osservare, nemmeno sbirciando, quello che stanno facendo gli altri, non mettermi in confronto, non commentare dentro di me le varie situazioni?

Ecco, è passato un anno prima che riuscissi a chiudere gli occhi, anche a lungo, anche di mia propria volontà; ora, talvolta, mi è difficile riaprirli. E questa è la piccola vittoria: mi posso affacciare sul mondo interno senza doverne scappare subito.

[Qui saltiamo il difficile capitolo delle respirazioni, non sono ancora nemmeno lontanamente sulla via…]

Durante l’esecuzione delle posizioni, sempre sotto la guida dell’insegnante che dà i tempi, le modalità, le varianti possibili, talvolta qualche consiglio, succede che il rumore del mondo esterno si attutisca, la concentrazione si convoglia sul momento presente ma rimango troppo saldamente ancorata al corpo: più di ogni sensazione percepisco il blocco che impedisce alle articolazioni di andare oltre, la tensione dello sforzo e spesso il dolore che cerco di ignorare, sono perciò rimandata a me stessa ma quello che ho imparato – e forse non è così poco come può sembrare – è dove è il mio limite. E quanto sia grande la voglia di oltrepassarlo.

Superato l’iniziale senso del ridicolo nel pronunciare la sillaba “om” all’inizio e alla fine di ogni sessione, ora accade che riesca a sentire una vibrazione all’unisono che mi collega all’altro, all’infuori della sua individualità, come pura essenza umana presente nello stesso spazio/tempo.

Lo stato di rilassamento  non si manifesta per me immediatamente: sono troppo impegnata a lottare invano contro la tensione che mi percorre come una corrente elettrica, tanto più forte quanto cerco di contrastarla; divento acutamente consapevole di quello che succede a chi è vicino a me e scivola, molto facilmente mi pare, in uno stato ipnotico, o si addormenta, e spreco le mie energie a rammaricarmi di non riuscirci. Qualche volta quando, miracolosamente, succede a me, mi accorgo del momentaneo distacco della coscienza e nello stesso istante lo perdo, cercando di carpirne il meccanismo.

Dopo, però, nel termine della sessione e nel ritorno a casa, vi è un piacevole e duraturo  rallentamento, non riesco a compiere gli atti abituali sullo stesso ritmo, mi sento ovattata, protetta dal frenetico ricercare, anticipare, cogliere, e divento partecipe di aspetti esteriori che spesso tralascio: odori, colori, piccole sensazioni, il rumore della ruota della bicicletta sull’acciottolato, il colore della sera che scende – messo a tacere il rimbombo interno, posso sentire il brusìo della realtà.